“Il valore di tutto” – M. Mazzucato

Il saggio della Mazzucato ha un argomento principale: la teoria del valore. Negli ultimi decenni si è affermato il principio neoclassico/marginalista secondo cui il valore economico delle cose dipende dal loro prezzo. La Mazzucato spinge invece a recuperare la nozione classica di valore fondata sull’impiego della forza-lavoro: più forza-lavoro si impiega, più una cosa ha valore. In aggiunta, la Mazzucato ricollega alla rivoluzione marginalista un po’ tutti i problemi che hanno afflitto il mondo negli ultimi anni: finanziarizzazione dell’economia, disparità salariale, precariato, big business, privatizzazioni. Insomma, per farla breve è un altro saggio (dopo quello che avevo recensito qualche giorno fa) contro il neoliberismo.

Lo ammetto, la mia è una semplificazione un po’ ingenerosa: a differenza del saggio di Porcher, la Mazzucato mostra una maggior cultura economica e una capacità argomentativa superiore. Tuttavia, il nucleo centrale del saggio mi sembra mescolare due concetti diversi: il costo e il prezzo. Il costo è oggettivo e dipende in effetti dalla forza-lavoro impiegata (insieme a materie prime, hardware, trasporto e commercializzazione). Il prezzo, invece, è soggettivo e in condizioni di libertà dipende da domanda e offerta. Facciamo un esempio: la vendita delle carrozze. Le carrozze hanno un loro costo oggettivo che dipende, come si è detto, dai salari dei lavoratori necessari a costruirle, dal legno, dal metallo e dagli altri materiali usati e così via. Ora, fino alla metà del Novecento circa, il prezzo delle carrozze era tale da superare i costi e permettere ai costruttori di guadagnare, dopodiché le cose sono cambiate radicalmente e il prezzo delle carrozze è sceso fino a far crollare la produzione. Perché questo? Semplice: l’introduzione delle automobili ha fatto crollare la domanda di carrozze e, di conseguenza, anche il prezzo.

La Mazzucato sembra avere una nozione confusa di valore: da un lato recupera la visione classica (più marxista in realtà) di valore basata sulla forza-lavoro impiegata; dall’altro però intende con valore anche l’utilità sociale di una cosa (per esempio i genitori che stanno a casa ad accudire i figli). A me sembra che si debba distinguere tra diversi tipi di valore. Se si parla del valore economico di una cosa, allora è logico che i marginalisti hanno ragione: la domanda e l’offerta sono implacabili (per questo i monopoli sono tanto dannosi e gli interventi statali portano a scarsità/surplus). Poi è chiaro che le cose non hanno solo un valore economico, ma anche affettivo o intellettuale o strategico, però mescolare insieme i diversi tipi di valore è pericoloso.

Perché pericoloso? Beh perché ci sono potenziali derive anti-democratiche. Chi stabilisce il prezzo delle cose? In un regime di libero mercato la risposta è: noi. L’interazione tra l’offerta di un bene e la sua domanda non è altro che la libera scelta di milioni (a volte miliardi) di persone che decidono a che prezzo comprare un determinato bene o servizio. Questo è un processo libero, democratico e sostanzialmente efficiente. Certo, a volte le cose non vanno come vorremmo e c’è spazio per un intelligente intervento pubblico: magari la gente preferisce comprare un nuovo modello di cellulare piuttosto che investire in ricerca di base. Ecco che collettivamente, attraverso i soldi pubblici e l’attività dei nostri rappresentanti eletti, possiamo finanziare settori strategici che il mercato da solo (ovvero le nostre scelte economiche individuali) non finanziano adeguatamente. Quell’incarnazione del neoliberismo più sfrenato, ovvero Milton Friedman, non avrebbe niente da ridire al riguardo: non vedeva niente di male in un finanziamento pubblico in campi come la ricerca, l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la difesa, l’ordine pubblico e così via.

Dove sta il problema allora? Il problema è quando si comincia a pensare alla «politica come attività volta a “formare” e a “creare” i mercati che acquistano valore pubblico, portando grandi benefici alla società». Il problema è quando si comincia a vedere nello stato il modo per indirizzare il mercato nella direzione che ci sembra migliore. Quando si comincia a vedere la società come un gruppo organico, coeso di persone che devono essere guidate dallo stato verso obiettivi comuni. Insomma, quando si comincia a limitare (sempre con buone intenzioni, è chiaro…) la libertà economica degli individui e delle imprese: se noi sentiamo che il valore di una cosa sia diverso dal suo prezzo di mercato, ecco che possiamo intervenire a cambiarlo! Ci sono delle discussioni approfondite e complesse da fare su diversi dei problemi che la Mazzucato mette in luce e si può dibattere per ore sulla misura migliore di spesa pubblica, sulle aliquote fiscali più vantaggiose e cose simili. Ma non bisogna mai dimenticare che il fine (una crescita economica sostenibile e inclusiva) non giustifica i mezzi (la soppressione della libertà economica).

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