“Dedalus” – J. Joyce

Dedalus è come Gente di Dublino solo che è un’autobiografia. E dell’autobiografia ha tutti i crismi: enfasi sull’infanzia, suddivisione in diverse fasi d’età, conversione centrale. Solo che da metà in avanti le cose cambiano. La conversione non è preludio alla maturità dell’autore, ma a un ulteriore cambiamento. Il protagonista, Stephen Dedalus, alter ego dell’autore, un po’ come i protagonisti di Gente di Dublino vive momenti di esaltazione, in cui sente di aver risolto la sua vita o di essere sul punto di farlo. Eppure, ogni volta qualcosa va storto: l’innamoramento cui non dà seguito, la carriera accademica, la conversione religiosa. Tutto va in fumo.

Questa è la croce e delizia di Dedalus, il senso di precarietà che si dipana sullo sfondo della solita Dublino. Il finale non risolve nulla. È vero, Dedalus sembra trovare la forza di abbandonare Dublino per Parigi (sfuggendo al pantano irlandese), ma tutti i fallimenti e le decisioni lasciate a metà nei capitoli precedenti pesano sul lettore. Perché le cose dovrebbero cambiare ora? Quale maturità ha raggiunto Dedalus? Per dirla con Orazio, caelum, non animum mutant qui trans mare currunt.

Una nota merita anche lo stile. Mentre in Gente di Dublino la narrazione è ancora lineare, qui Joyce abbozza per la prima volta quello stile serrato e onirico (noto come stream of consciousness) che sarà poi tipico delle sue opere maggiori (che, a questo punto, non vedo l’ora di poter recuperare).

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