“Il libro di sabbia” – J.L. Borges

Leggere gli scrittori sudamericani fa bene all’anima: nel loro modo di vedere e descrivere il mondo c’è un qualcosa di così intimo e familiare che, ogni volta, è come tornare a casa.

Vale anche per Il libro di sabbia, una raccolta di racconti di Borges pubblicata nel 1975, ma poi ampliata alcuni anni dopo.
Il libro di sabbia è Borges al 100%: il suo stile e i suoi contenuti espressi nel racconto (molto breve), forma a lui congeniale. Cioè, creazione di mondi fantastici, spesso onirici, perennemente in bilico tra realtà e immaginazione.

Emblematico in questo senso è il primo racconto, L’altro. Borges immagina di incontrare il se stesso di un’altra epoca (motivo poi ripreso in un altro testo). Questa è la chiave per interpretare tutti i racconti: il loro senso non si colloca mai sulla superficie, ma lungo uno strato più profondo, quasi come se esistesse nell’autore una seconda e, appunto, più profonda immaginazione dalla quale pescare.

Questa caratteristica impregna tutta la raccolta. Borges rappresenta una realtà altra, sottilmente irreale, persa in un tempo poco chiaro e continuamente ondeggiante tra passato, presente e futuro. Un tempo, quindi, infinito.

La memoria di Shakespeare, che chiude la raccolta, tira tutti i fili della narrazione, offrendo un sunto della poetica borgesiana: il tema dell’altro, che qui è concretamente altro, cioè Shakespeare (a sua volta personaggio quasi irreale, vista la sua incerta identità storica); il motivo del sogno, o della finzione, incarnato dall’idea stessa di una memoria in grado di trasmigrare e di fondersi (fino a confondersi) in quella di un’altra persona; il mistero dell’infinito (costante assillo specie della produzione poetica di Borges), qui risolto nel rimpallarsi continuo di un’eredità talmente pesante (appunto, la memoria di Shakespeare) da essere destinata a durare per sempre.

Viva il “multiverso” di Borges e viva gli scrittori sudamericani.

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