“I cazzari del virus” – A. Scanzi

Avete ragione: questa “recensione” – più un flusso di coscienza, in realtà – arriva colpevolmente in ritardo. Inaccettabile per una scanziana della prima ora come me (anche se le vendite del libro sembrano avermi aspettata con grazia), ma quest’anno va così. Va un po’ tutto così.

A dir la verità, ancora fatico a crederci. Fatico a credere di essermi laureata attraverso una webcam, o di essere stata a distanza forzata dalla mia famiglia per mesi, o di aver provato ansia anche solo a passeggiare con i miei cani. Mi sembra tutto così surreale, così terribile. Psicologicamente destabilizzante.

È qui che secondo me si riconosce il primo fondamentale merito dei Cazzari del virus di Andrea Scanzi: non sottovaluta mai, neanche per un istante, l’aspetto psicologico dell’assurda situazione in cui tutti noi ci siamo trovati. A differenza dei cazzari in copertina – che, tra uscite irricevibili e atteggiamenti altrettanto vomitevoli, l’emotività l’hanno allegramente calpestata – Andrea ha bene in mente i volti di chi quotidianamente prosciugava le proprie energie per soccorrere i malati, di chi sognava di abbracciare i propri cari, o di chi li ha persi senza avere nemmeno il modo e la forza di elaborare il lutto. Di chi “diede la vita ed ebbe in cambio una croce”. Basterebbe il capitolo “Lettera di un nonno” per realizzare quanto sia importante ascoltare le persone, soprattutto ora.

Sono anni invece che la politica è sorda a ogni voce. Da troppo tempo i nostri incravattati (o felpati) parlamentari credono che entrare nelle case degli italiani con la televisione o confondersi nella massa in costume da bagno significhi “ascoltare i cittadini”. Ultimamente, poi, sembrano intenzionati a dare proprio il peggio di sé; qualcuno mangiando ciliegie, qualcuno usando i defunti per propaganda, qualcun altro (tutti) facendosi la guerra mentre la nave affonda.

Per fortuna, molti cittadini hanno capito che per trovare conforto non bisogna più rivolgersi alla politica, ma all’arte. Senza la sensibilità non avremmo superato alcun lockdown. Lo sa bene chi si è inventato concerti tra balconi, così come chi ha organizzato dirette Facebook quotidianamente. Creare un’occasione di incontro e di scambio può salvare una giornata, quando fuori tutto tace.

A questo proposito, un altro merito del libro è esibito in copertina: si tratta di un “Diario della pandemia”. Un’idea che invidio molto, perché scrivere un diario è in effetti un ottimo antidoto contro l’allucinazione collettiva dei mesi passati. Un diario contiene rabbia, paura, sofferenza, ma anche speranza e ironia (ancora rido per certi aulici versi quali: “Questo qua sembra uno di quelli che, quando hanno voglia di emozioni forti, sniffano il Wcnet”), sempre da una prospettiva intima e personale.

Solo riscoprendo e valorizzando questa dimensione intima, fatta di emotività e di ascolto reciproco, si può pensare di imparare qualcosa da questa tragedia. Come? Non abituandosi a contare i morti, per esempio. Normalizzare una realtà in cui la massima espressione di affetto è una toccata di gomito (che mestizia) e in cui ogni essere umano è considerato una potenziale minaccia è un suicidio sociale. Almeno quanto votare in massa la lega.

Non so se questa sia la sede adatta, ma tra bischeri ci si formalizza poco, perciò ne approfitto ugualmente: grazie, Andrea, una volta di più. Penso che la tua compagnia e il tuo impegno costante – di cui, del resto, questo libro non è che uno dei tanti frutti – non verranno dimenticati. Shine on, you crazy diamond.

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