“Giappone. Storie di una nazione alla ricerca di se stessa” – C. Harding

Il Giappone è tanto misterioso quanto affascinante per un occidentale. Tutti conoscono il Giappone: da qualche decennio a questa parte, la nostra infanzia è plasmata da questo curioso arcipelago (Pokemon, Holly e Benji, Mila e Shiro, Naruto e via così, per quelli della mia età, nuovi anime e giochi per chi ha qualche anno di meno). Inoltre, prodotti giapponesi affollano le nostre vite: dalle automobili, alle tecnologie informatiche, all’intrattenimento. Il Giappone, poi, è del tutto allineato all’Occidente per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e dei principi democratici e del libero mercato. Il Giappone è un paese occidentale sotto diversi aspetti. Eppure…

Eppure, c’è sempre qualcosa di alieno e particolare nel Giappone. Qualcosa che sfugge e che mette in certi casi anche a disagio. Il saggio di Harding si concentra su questo: non fa una storia del Giappone, ma delle storie. Un plurale di tasselli che non si riescono ancora a inserire in un mosaico coerente. Che cosa sia il Giappone e cosa voglia dire essere giapponesi sono questioni che i giapponesi stessi non riescono a risolvere.

Questo perché la storia del Giappone si dibatte tra la convinzione della propria eccezionalità e la consapevolezza della propria inadeguatezza: sono una nazione governata da sovrani divini e fondata su un ordine gerarchico millenario che ha subito, nel breve corso di un secolo e mezzo, degli shock esistenziali micidiali. Due su tutti: l’arrivo delle corazzate americane nell’Ottocento, con la presa di coscienza della propria debolezza militare; e la sconfitta nella seconda guerra mondiale, con la dichiarazione di resa dell’imperatore Hirohito e la sua ammissione di non essere un vero dio in terra. Due momenti che hanno sgretolato le certezze di un popolo e gli hanno tolto il senso di superiorità tanto a lungo coltivato.

L’attuale imperatore Naruhito. Fino ai tempi di suo nonno gli imperatori erano considerati vere e proprie divinità.

Questa nuova consapevolezza ha aperto quel vuoto che spesso si intuisce nel cuore del Giappone. Quel vuoto che ha spinto alla ricerca del progresso tecnologico e della crescita economica. Quel vuoto che ha disseminato alti tassi di depressione e disagio sociale nella popolazione. Quel vuoto che ha privato il Giappone della voglia di fare figli e ha spinto a un progressivo e spaventoso invecchiamento della popolazione. Quel vuoto che ha costretto molti al culto nostalgico per il Giappone rurale di un tempo.

Se posso arrischiare una mia opinione, penso che qui stia forse la differenza maggiore tra il Giappone (questa enclave di “Occidente” in Asia) e gli altri paesi del mondo occidentale. Mentre gli stati moderni, la democrazia e i diritti umani in Occidente sono l’esito di un processo millenario di riflessione, evoluzione e azione; il frutto spontaneo di millenni di storia e di valori autoctoni che hanno in Gerusalemme, Atene e Roma le loro fondamenta. In Giappone non è stato così. Il Giappone ha assunto usi occidentali prima per spirito competitivo, inseguendone il progresso tecnico e militare, e poi con la rassegnazione degli sconfitti. E se i giapponesi stessi non hanno ancora capito come mettere insieme la loro identità nazionale millenaria con i nuovi valori e sensibilità occidentali, allora è un po’ arrogante pensare di poterlo fare noi per loro. Il Giappone è ancora oggi un esperimento unico di civiltà che è costretta a trasformarsi radicalmente: sono passati solo un paio di secoli dall’incontro con l’Occidente, ne serviranno forse altrettanti perché trovi un suo nuovo equilibrio.

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