“Adolescenti a scuola” – A. Arace

Chi frequenta anche solo marginalmente il vasto mondo dell’educazione si sarà sicuramente reso conto di un grande problema: il disagio che molto spesso gli adolescenti vivono. Per chi come me è da poco passato “dall’altro lato della barricata” come insegnante, è stata una discreta sorpresa. In pochi anni il numero di ragazzi e ragazze che devono fare i conti con problemi e disagi personali, sociali e familiari è esploso. Al punto che ragazzi sereni, in grado di impegnarsi e di creare relazioni costruttive in classe sono diventati spesso una minoranza.

Cosa fare dunque? Come società ci sarebbe molto da fare, per esempio fornendo maggiori certezze e maggior stabilità per cercare di colmare il vuoto esistenziale che molti giovani sentono. Ma si tratta, per il momento, di una prospettiva di difficile realizzazione e allora sono i singoli educatori a doversi attivare per “metterci una pezza”. Personalmente ho sentito l’esigenza di approfondire la questione e migliorare le mie competenze pedagogiche e psicologiche attraverso una serie di letture ad hoc. Il volume di Angelica Arace è la prima di queste letture. E non mi ha deluso.

Chiaro e completo, approfondito ma dal tono divulgativo, il saggio della Arace si presenta come un manuale pratico per individuare e affrontare le varie situazioni che gli adolescenti possono affrontare a scuola. Il saggio si confronta con diverse branche del sapere, spaziando dalla pedagogia, alla psicologia, alle neuroscienze, ma il vero filo conduttore è la concretezza. I discorsi teorici sono sempre riportati a situazioni concrete: che conseguenze hanno queste teorie nella vita di classe e come possono essere usate per diventare educatori più incisivi?

Io trovo che ogni saggio che si rispetti abbia un nucleo centrale, un fondamento (il manzoniano “sugo di tutta la storia”). Nel caso del saggio della Arace questo nucleo non manca: “al cuore di tutto il processo si trova l’insegnante o meglio la relazione che egli instaura con l’allievo e la classe. È proprio tale relazione a determinare la qualità e la quantità dell’apprendimento, non il computer, il corso di inglese, l’introduzione delle novità pedagogiche offerte dalle nuove tecnologie, le architetture organizzative o le acrobazie psicopedagogiche.” Empatia, relazione, accompagnamento, affetto, stabilità, umiltà, umanità dovrebbero essere le parole chiave di un educatore vero e le competenze disciplinari dovrebbero venire solo dopo: perché, a chi giova un insegnante preparatissimo che non trasmette passione? O cosa lascia un luminare incapace di provare affetto per i propri alunni? Forse la vera ripartenza della scuola italiana (al di là delle legittime discussioni istituzionali ed economiche) sta in questo.

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