“Il paradosso della concorrenza” – L. Einaudi

Il paradosso della concorrenza unisce quattro saggi di Einaudi: La bellezza della lotta; Economia di concorrenza e capitalismo storico; Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio; La dottrina liberale. Che dire? Poche volte mi è capitato di leggere saggi dotati di tanta lucidità e saggezza, di tanta competenza tecnica e umanità. Quello che colpisce è la complessità di pensiero e la sua profondità, quasi sconvolgente per chi è abituato da anni a una riflessione politica fatta di slogan (“Lo chiede l’Europa!”; “Prima gli italiani”; “Ci pagheranno le pensioni” e così via).

Il punto di partenza è la difesa della libertà economica dei cittadini. Infatti «il frutto spirituale immateriale più alto dell’economia di mercato è quello di sottrarre l’economia alla politica. Le decisioni su quel che si deve produrre, sul come produrlo, sul quanto produrre sono prese direttamente dal vero unico padrone del mercato, dall’uomo consumatore». Questa chiarezza di pensiero non diventa però fanatismo e riconosce i possibili fallimenti nella realizzazione dell’ideale. La nascita di monopoli e il protezionismo sono sempre dietro l’angolo: «i produttori sono di solito in numero piccolo in confronto a quello dei consumatori. È agevole ai primi accordarsi e riuscire ad ottenere favori e tutela dal legislatore».

La competenza tecnica di Einaudi si unisce poi a una grande conoscenza dell’animo umano. L’uomo non è fatto solo per produrre e per lavorare. Anche il miglior sistema economico del mondo (cioè quello fondato sulla concorrenza), non potrà funzionare senza una società umana. Gli uomini «vogliono avere un’oasi dove riposare, vogliono sentirsi per un momento difesi da una trincea contro l’assillo continuo della concorrenza, della emulazione, della gara. Le oasi si chiamano famiglia, amici, vicini, compaesani, concittadini, connazionali, correligionari […]». Insomma, tutto quello che una volta prendeva il nome di tessuto sociale. Queste riflessioni spingono a chiedersi se il senso di angoscia che adesso attanaglia l’Occidente non dipenda più dal disfacimento del tessuto sociale (dovuto in gran parte al declino della pratica religiosa e al disgregamento dei nuclei familiari) che dalla crisi economica.

È difficile non pensare al presente quando si legge Einaudi. Per esempio, riflettendo nel 1942 sulle speranze per il futuro, Einaudi coglie un disagio giovanile che sembra lo stesso di oggi: «A far dubitare che l’inizio del secolo nuovo sia imminente costringe la sensazione del diffondersi nei giovani appartenenti ai ceti colti della psicologia del millenarismo, dell’aspettazione dei messia, dell’attesa del fatto rivoluzionario, il quale ponga rimedio a tutto ciò che di guasto essi scorgono nella società presente».

Quale antidoto a questo disagio, a questo spirito collettivista, a questa attesa di messia? Non bisogna dimenticare che «altro è l’ideale dell’uomo; ed è quello insegnato da Cristo, che, facendolo creato ad immagine e somiglianza di Dio, ha voluto che egli alzasse lo sguardo verso l’alto, perfezionasse quel che ognuno ha in sé spiritualmente di proprio e di buono, quel che lo fa degno di essere cittadino della città che fu l’ideale del secolo di Pericle, del duecento e del trecento faziosi e creatori, del grande secolo decimottavo della ragione non ancora ragionante, e del tempo del risorgimento italiano di Mazzini e Cavour».

Quando torneremo a perfezionare quel che ognuno ha in sé spiritualmente di proprio e di buono, allora forse potremo pensare di meritarci di nuovo politici come Einaudi.

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