“Il giardino delle belve” – J. Deaver

Ho sempre sostenuto – lo ammetto: con una certa arroganza – che Stephen King fosse il migliore narratore vivente. Mi vantavo di questa posizione con chiunque mi capitasse di parlarne e non capivo chi cercasse di ridimensionarmi. Pensavo di essere l’unico ad aver colto la grandezza di King, e sotto sotto godevo nel sostenerla decisamente: del resto, si ricava sempre un certo godimento nell’essere tranchant.

Oggi posso ammettere (finalmente) di essermi sbagliato. Ho sbagliato per arroganza e per ignoranza, cioè per aver letto troppo poco. Ovviamente, questo mea culpa nulla vuol togliere alla bravura di King. Continuo a ritenerlo uno scrittore con i fiocchi, in grado come pochi di incollare il lettore alla pagina. Ma ho scoperto che c’è chi è in grado di tenergli testa: Jeffery Deaver.

Il giardino delle belve racconta una storia semplice: un sicario è assoldato per eliminare un alto gerarca nazista. Può apparire banale, ma allora perché funziona? Per due motivi almeno. Primo, perché Deaver sa mischiare con maestria realtà e finzione. Immerge in un ambiente reale (la Berlino olimpionica del 1936, ricostruita in modo sopraffino) personaggi inventati che finiscono per sembrare più veri di Hitler, Göring o Himmler, cioè personaggi realmente esistiti e presenti nel romanzo.

Il secondo motivo per cui Il giardino delle belve funziona è la tensione narrativa. La penna di Deaver è avvincente e appassiona. La storia è fluida, scorre rapida e incatena il lettore. Specie nella seconda metà, quando i colpi di scena si susseguono uno dopo l’altro senza soluzione di continuità e Deaver scompiglia abilmente tutte le carte che credevamo fossero sul tavolo, Il giardino delle belve diventa un vortice irresistibile che ci risucchia.

Insomma, un romanzo davvero riuscito di un narratore da aggiungere all’Olimpo dei grandissimi, in cui Stephen King (fortunatamente) non si trova più da solo, se solo lo è stato mai.

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