“I mondi di J.R.R. Tolkien” – J. Garth

Per me leggere Tolkien è come tornare a casa. Il mondo secondario che ha creato e la storia sublime del suo legendarium hanno la stessa consistenza e fascino del mondo reale. Complessità, profondità, realismo, imprese… nel mondo di Tolkien si possono leggere in trasparenza le stesse questioni e sfide che attraversano il mondo reale. Come spesso succede, la letteratura autentica permette di mettere a fuoco con maggior precisione degli elementi che nel mondo reale, per la loro vicinanza, sono solo sfumati e non si riescono a cogliere del tutto. Leggi della fatica di Frodo nel portare l’anello lungo i pendii del Monte Fato e realizzi che anche il tuo malessere dipende da un anello di cui ti devi sbarazzare.

Nel suo ultimo saggio, John Garth si chiede se questa comunanza sia solo a livello narrativo e morale o anche geografico. Se insomma ci siano dei parallelismi tra la Terra di Mezzo tolkieniana e il mondo reale. La risposta come ci si potrebbe aspettare è affermativa. L’analisi di Garth è impeccabile nel rintracciare nei vari luoghi di Arda (il mondo di cui la Terra di Mezzo fa parte) tracce di luoghi reali che possono aver ispirato Tolkien. Il risultato è un saggio esauriente, dal tono accademico ma sempre interessante, ricco di immagini e specchietti di approfondimento che rendono più vivace la lettura.

Ora, ci si potrebbe chiedere il senso di un saggio simile… in fondo, cosa aggiunge alla lettura sapere che Tolkien si è ispirato per la sua Contea al villaggio di Sarehole nei pressi di Birmingham? O che i Rohirrim sono ricalcati sugli anglosassoni del regno di Mercia? Nulla. Il romanzo tolkieniano si può godere anche senza conoscere tutto ciò che gli sta dietro. Questa è una delle cose belle di Tolkien: lascia libero il lettore di approfondire quanto vuole le proprie opere. La profondità c’è e sta lì: ognuno sceglie quanto a fondo vuole scendere.

La scelta di approfondire il mondo di Tolkien affrontando anche la lettura della cosiddetta letteratura secondaria ha almeno due ragioni. In primo luogo, permette di apprezzare con maggior consapevolezza l’immenso lavoro compiuto dal filologo inglese nel cesellare il proprio romanzo. Questa è una ragione intellettuale. Ma c’è anche una ragione emotiva. Quando si ama qualcosa si cerca di conoscere sempre di più e sempre meglio quel “qualcosa”. Se si ama un luogo, lo si visita in lungo e in largo fino a familiarizzare con ogni cantuccio. Se si ama una persona, si vuole conoscere quasi ogni istante della sua vita e ogni recesso della sua anima. Se si ama un’opera letteraria, è quasi spontaneo il desiderio di approfondirne la conoscenza, cercando di afferrarne le radici (le fonti di ispirazione) e di coglierne appieno il significato (il messaggio o poetica). Non con la “sarumaniana” follia di rompere qualcosa per capire come funziona, ma più con il desiderio “hobbitesco” di conoscere i semi di una pianta che si ama e capire quale terra e quali nutrimenti hanno permesso di farli crescere in modo tanto mirabile.

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