“I canti di Castelvecchio” – G. Pascoli

Dopo Myricae ho scelto di recuperare l’altra grande raccolta di poesie di Giovanni Pascoli. E la mia opinione su di lui non è cambiata. Infatti, le due raccolte sono molto simili. In entrambe si trovano i temi caratteristici di Pascoli (quella che a scuola si chiama di solito “poetica”). Natura, fiori, uccelli, morte, campisanti, tuoni, vaghe pennellate di speranza qua e là, nido familiare. Tutte queste caratteristiche compaiono in entrambe le raccolte. Eppure…

Eppure devo ammettere di aver notato una sottile differenza tra le due raccolte. Nei Canti di Castelvecchio, infatti, il tono generale mi è sembrato un po’ meno cupo. Non perché i temi della morte e della perdita siano meno insistenti o presenti. Ma perché questi temi non sembrano suscitare nel poeta un desiderio esplicito di morte, ma piuttosto una struggente nostalgia per una realtà diversa e perduta. E questa nostalgia è ciò che caratterizza l’essere umani.

Quella nostalgia che anche nei momenti di maggior soddisfazione e gioia (le cosiddette epifanie) ti fa sentire comunque una piccola mancanza, data dal senso di instabilità e precarietà della gioia. Quella struggente nostalgia che ti fa pensare che forse (speranza per Pascoli ineludibile quanto incerta) la nostra realizzazione e il nostro destino non si devono completare in questo mondo e in questa vita.

Insomma, tra l’odore di fiori e il rimbombo di tuoni, tra il galoppare di cavalli e le riflessioni sulla morte, sembra esserci un po’ meno dolore e un po’ più struggimento nella vita di Pascoli.

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