“L’eleganza del riccio” – M. Barbery

L’eleganza del riccio (2007) è un libro elegante e, quindi, fedele al proprio titolo. Si tratta di un’eleganza formale e di un’eleganza contenutistica. Capita di rado di leggere libri così curati, così ricercati, così deliziosi. Capita ancora più di rado che quella cura, quella ricercatezza e quella delizia non generino mostri incomprensibili e astrusità stilistiche. Si tratta invece di una scrittura “con i piedi ben piantati sulle nuvole”, per riprendere la celebre definizione di sognatore data da Ennio Flaiano. Di una scrittura rara e preziosa, quindi.

L’eleganza del riccio si muove in due direzioni: la vicenda principale e alcune riflessioni “collaterali” che si intersecano alla vicenda principale, la sorreggono e la chiariscono. Una portinaia di un ricco palazzo parigino, che si spaccia per pigra e poco colta, è in realtà una mente agile, lucida e profondamente acculturata, che serba un dolore profondissimo e poco chiaro. Abita in quello stesso palazzo una ragazza dodicenne, “responsabile” delle riflessioni collaterali che si infilano tra un capitolo e l’altro. Sono due anime molto simili, quasi che l’una si incarnasse nell’altra e fossero alla fine la stessa mente in due corpi diversi. L’arrivo di un signore giapponese scompiglia le carte e svela ciò che fino a quel momento era rimasto nascosto.

Muriel Barbery insegna filosofia e si sente. Le interferenze filosofiche sono tante, ma non complicano la lettura. Anzi, sono un condimento necessario, contribuiscono al tono elegante del romanzo stesso. Ma non c’è solo la filosofia. Infatti, anche la letteratura (in particolare, la letteratura russa) e il cinema (in particolare, quello giapponese) accompagnano i protagonisti, entrano a far parte della narrazione non come semplici espedienti, ma come elementi imprescindibili al racconto. Si crea quasi confusione tra dimensione reale e dimensione artistica (cinematografica e letteraria), le quali si intrecciano a tal punto da fondersi. Non è un caso, infatti, che il signore giapponese si chiami Ozu, come il celebre regista. Insomma, un libro da leggere e da godere nella sua cura e nella sua “multiversalità” artistica.

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