Questo libro l’ho letto perché mi sentivo ignorante. Siamo abituati, specie in un periodo come questo, a vedere la politica attraverso lenti bipolari: da un lato la sinistra e dall’altro la destra. Progressisti contro conservatori. Comunisti contro fascisti. Buoni contro cattivi. Eppure, anche solo per restare nel contesto italiano, le cose non sono così semplici e la plurisecolare storia politica del nostro paese ha conosciuto compagini molto più diversificate.
Di queste, quella che per me risultava più fumosa e incerta era quella del popolarismo. I fascisti? Famosissimi, tutti li conoscono. I comunisti e socialisti? Più o meno tutti sanno chi sono e in cosa credono. I liberali? Già un po’ meno celebri, ma anche il nome aiuta a inquadrarli. E i popolari? Tra tutti i movimenti politici, proprio i popolari sono quelli con cui avevo meno familiarità. Sapevo che esistevano, sapevo che li aveva fondati un sacerdote, sapevo che erano più o meno legati al cattolicesimo. Niente di più.
Il saggio di Felice aiuta a comprendere molto meglio i contorni e la sostanza di questo movimento politico. Non si tratta di un saggio semplice, Felice è un professore di storia delle dottrine politiche e la sua trattazione è approfondita e densa di riferimenti al contesto storico e filosofico. Eppure vale la pena leggerlo perché offre davvero tanto al lettore, non ultimo la nostalgia per un modello politico che ormai è tramontato e non ha eredi né attuali né in prospettiva.
L’idea più pregnante, quella che manca nel discorso politico e ideologico contemporaneo, è quella della società plurarchica. Secondo la visione popolare, una società deve basarsi su più centri di potere e autorità. Questo porta alla rottura del primato della politica. Il potere politico dello stato è solamente una delle vie per concorrere al bene comune della società. In mezzo, tra lo stato e l’individuo, esistono molti altri corpi intermedi che devono concorrere alla sua realizzazione e al benessere comune: la famiglia, le associazioni sportive e culturali, le chiese, le imprese e associazioni lavorative.
Questi corpi intermedi hanno un doppio compito: il primo è quello di aiutare e sollevare lo stato di diversi compiti, svolgendo un ruolo sussidiario; il secondo è quello parallelo di limitare il potere dello stato per evitare l’ascesa di un proverbiale “leviatano” in grado di limitare le libertà individuali.
Nel caso italiano, l’esempio della Chiesa cattolica è lampante da questo punto di vista. Le parrocchie e associazioni religiose sono un esempio molto chiaro di corpo intermedio che svolge un ruolo sussidiario nei confronti dello stato. Dagli esempi più banali dei centri estivi parrocchiali per supportare le famiglie che lavorano, fino agli aiuti nei confronti degli ultimi della società. Sono tutti compiti che le chiese possono svolgere meglio, con più efficienza e rapidità rispetto allo stato (ho appena passato due mesi a organizzare un percorso estivo presso una scuola pubblica: credetemi, l’efficienza non è di casa). Difatti, si calcola che lo stato risparmi circa 10 miliardi di euro all’anno grazie alla presenza della chiesa.
E lo stesso vale, in proporzioni diverse, per la miriade di altri corpi intermedi che si possono trovare nella nostra nazione.
Insomma, gli ideali del popolarismo possono essere un buon antidoto allo statalismo intrinseco degli italiani e, ad ogni modo, il saggio in questione resta una lettura stimolante e interessante.
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