“Opera omnia”- Orazio

Ci sono pochi poeti che ho amato e amo più di Orazio. Per me leggere le Odi di Orazio è un po’ come tornare a casa. L’elegante armonia dei versi, la semplice saggezza dei contenuti e la bonarietà d’animo mi catturano sempre. Alla magia della lettura contribuisce anche la nostalgia dei ricordi: penso sempre al me giovane studente costretto a leggere le poesie di Orazio in classe e che si ritrova a pensare (tra un inevitabile sbadiglio e l’altro) che tutto sommato “questo tizio non è così male, anzi è perfino piacevole”.

Rileggere Orazio alcuni anni dopo, con il carico di anni, esperienza e saggezza (?) in più mi ha spinto a cogliere qualcosa di nuovo nei suoi versi. La precarietà. Orazio per tutta la vita non ha fatto altro che cercare la stabilità e la tranquillità. Il suo spirito geniale ha scavato affannosamente nelle pieghe del pensiero classico alla ricerca di risposte che gli permettessero di essere sereno. L’esaltazione dei piccoli piaceri della campagna, il rifiuto dell’impegno politico, l’amore per la natura, un distaccato apprezzamento nei confronti delle donne e dei piaceri della tavola vanno tutti in questa direzione.

Orazio per tutta la vita ha cercato il segreto di una vita realizzata e tranquilla. E ha fallito. Vinto dalla precarietà dell’esistenza. L’etica del carpe diem e della moderazione non ha permesso a Orazio di raggiungere una stabile serenità. Dopo l’irruenza giovanile degli Epodi, la scanzonata leggerezza delle Satire e la sublime eleganza delle Odi, Orazio nella vecchiaia confida i suoi pensieri nelle Epistole. Quest’opera poetica, che nei percorsi liceali si sfiora appena, ci mostra un Orazio amareggiato e irrequieto, in preda a un torpore mortale che gli impedisce di godere di quei piccoli piaceri in cui aveva pensato di trovare una risposta.

Penso che in questo stia forse uno degli insegnamenti più grandi (e involontari) di Orazio. L’etica oraziana, come tutte le riflessioni etiche del periodo, sono calibrate sull’individuo. Io. Io. Io. Come devo comportarmi per essere felice IO? Cosa posso fare IO per essere sereno? Nella mentalità classica questo era il grande obiettivo, la grande domanda a cui trovare una risposta. Il tormento di Orazio ci mostra che forse la prospettiva è sbagliata.

Niente di male nell’apprezzare i piccoli piaceri della vita, nel coltivare amicizie e anche nel rifiutare il desiderio di ricchezza e potere: se più persone vivessero seguendo questa semplice etica, il mondo migliorerebbe parecchio. Quando però si arriva al dunque; quando si deve trovare un motivo forte per alzarsi dal letto al mattino; quando l’esigenza di senso si fa impellente e non la si può più nascondere con vino, donne e amicizie, ecco che serve qualcosa di più forte. Ecco che si intravede che l’Io non è più sufficiente e che abbiamo bisogno di qualcosa di più grande di noi per vivere.

La sete di senso è un bisogno che forse non è fatto per essere soddisfatto individualmente, ma in relazione.

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