“Myricae” – G. Pascoli

Non è facile leggere questa raccolta di poesie di Pascoli.

Non è facile se il proprio cuore soffre e la vita sembra piena di dolore. Perché questo dolore trova in Pascoli un sublime, raffinato cantore, certo, ma anche e soprattutto un suo fine conoscitore. Il dolore che Pascoli descrive con il suo poetare di cipressi e campisanti è talmente profondo da mettere i brividi. Talmente lungo da far venire le vertigini. Talmente semplice da sconvolgere. Leggi “Questa vita che tu mi desti − o madre, tu! − non l’amo” e ti chiedi “sarà così anche per me prima o poi? Conoscerò questo stesso dolore?”.

Infatti, questo malinconico dolore è lo stesso che ogni cuore teme di sentir sorgere dentro di sé. Cupo e silenzioso si insinua fino al midollo senza quasi farsi notare, ma poi ci si rende conto all’improvviso che non se ne va. Silenzioso ma imperioso resta in agguato pronto a ghermire l’anima in ogni momento. Ferita sempre aperta, rifiuta di cicatrizzarsi e ogni balsamo non è che temporaneo.

Al tempo stesso, però, nell’oceano sconfinato di male e sofferenza, in Myricae c’è anche, in fondo in fondo, una goccia di speranza. Non tanto la speranza imbalsamata del Nido e il rimpianto del passato. Si tratta piuttosto di una speranza fatta di resistenza e ripartenza continue. Sì, soffro, ma vado avanti. Sì, non amo la vita, ma la vivo comunque. Sì, il mondo è caduco e l’inverno dietro l’angolo, ma posso apprezzare la primavera.

Non è facile leggere questa raccolta di poesia di Pascoli, specie se si soffre. Ma forse è importante farlo, proprio quando si soffre.

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