Chi scrive vede in Marco Pantani il più forte e appassionante ciclista di tutti i tempi.
Se vuoi, anche per limiti anagrafici: per chi è nato negli anni Novanta, Eddy Merckx, grande grandissimo, è ormai distante. Figurarsi Coppi o Bartali. No, Pantani è il nostro mito “a colori”. La sua vicenda è epica: vita, morte e miracoli di un ragazzo la cui parabola ha toccato vette e abissi talmente irreali, che se fosse un’opera di finzione ci sentiremmo presi in giro.
E invece è la vita vera, la realtà che sfoga tutta la sua immaginazione.

Il romanzo di Fabio Genovesi si muove su tre piani: uno vagamente autobiografico (il protagonista è un ragazzo di nome Fabio, obiettore di coscienza, amante del ciclismo, con un grosso peso sulle spalle), uno biografico-sportivo (gli anni ’94-’98 della carriera di Pantani) e uno figurale (la storia di Pantani anticipa, accompagna e in parte ispira quella del ragazzo protagonista). Sono tre piani così apparentemente distanti che finiscono per intrecciarsi in maniera indissolubile.

Genovesi racconta con estremo realismo dubbi e ansie di un ragazzo di vent’anni che la vita ha costretto a scelte obbligate, imposte; descrive le imprese del Pirata al Giro d’Italia e al Tour de France del 1998 con una vivacità e un sentimento che non possono non catturare e commuovere. Pare di esserci noi su quella bicicletta, pronti a gettare via la bandana per un ultimo, devastante scatto.

Qualcuno ha definito questo libro come il migliore tra quelli dedicati a Pantani. E probabilmente lo è. Scevra dalle sue mille ombre (e, per una volta, non è un lato negativo), la vicenda di Pantani riacquista finalmente l’aura mitica che le trasmissioni televisive e le inchieste giornalistiche avevano ormai appannato. Perché il ricordo è fondamentale, specie quello di una vicenda non ancora “in pace”. Ma non deve essere solo il ricordo di un baratro.
In fondo, Marco Pantani ci ha insegnato a (sognare di) volare.